L’ANGOLO DELLA STORIA

CUOGHI, IL BOMBARDINO EMILIANO
 
Centrocampista offensivo, ha attraversato per intero il ciclo del “Piccolo Diavolo” (1980/83). La sua migliore stagione rossonera fu quella della seconda annata in B.
 
by Magliarossonera.it (80/81)
 

Stefano Cuoghi, modenese, classe ’59, approdò al Milan nell’estate del 1980, via Modena, sua città natale, insieme a Maestroni. Il Milan del rilancio, dopo la retrocessione a tavolino, passava anche da questo centrocampista ventunenne, con buone attitudini offensive. Fu lui il principale artefice del primo successo esterno del campionato 80/81.
 
La squadra di Giacomini balbettò parecchio nel primo scorcio stagionale e la vittoria di Bergamo, contro l’Atalanta di Bolchi, segnò l’inversione di tendenza che in poche settimane avrebbe portato il Milan in testa alla classifica del campionato cadetto. Il suo gol fu di elevata fattura. Azione avversaria interrotta, veloce ripartenza di Cuoghi, scambio con Novellino e conclusione vincente dell’ex giocatore del Modena alle spalle di Memo. Rossoneri in vantaggio dopo mezzora di gioco. La partita si chiuse sul 3-1 per il Milan. Andarono a segno anche Buriani (rigore) e Vincenzi e quest’ultimo finì sulla prima pagina del Guerin Sportivo che dedicò ai rossoneri la copertina titolando “B è bello”.

Tratta da www.magliarossonera.it

Giacomini lo impiegò 27 volte e Bombardino (come venne soprannominato Cuoghi) non tradì la fiducia del mister. Anzi, nella prima parte della stagione fu tra i migliori, risultando a fine campionato al quinto posto, come rendimento, dopo Novellino, Piotti, Battistini e Antonelli. Numeri che gli portarono la conferma per la stagione del ritorno in A.
 
Nell’estate ’81, a mercato concluso, Alfio Tofanelli (e non solo lui) espresse parecchi dubbi sulla rosa messa a disposizione di Radice, inserendo Cuoghi tra coloro che non avrebbero dato un segno tangibile in termini di qualità. La stagione fu tremenda, una inesorabile discesa nel gorgo della bassa classifica. E Cuoghi ne venne inesorabilmente risucchiato.
 
Contro la Juventus, a San Siro, spedì in tribuna una colossale palla-gol, a due passi da Zoff. Poteva essere il gol del vantaggio, invece fu la Juve a vincere grazie ad una zampata di Virdis. Cuoghi deluse, bloccato anche da un infortunio. Appena cinque le sue presenze in campionato e due in Mitropa Cup.
 
Il repulisti di Farina risparmiò il Bombardino emiliano che si riscattò immediatamente, disputando una buona stagione 82/83. Anche allora, la prima vittoria esterna recò la sua firma tra i marcatori (raddoppio contro il Campobasso). Castagner lo utilizzò con continuità (29 presenze) e per Cuoghi fu la stagione del riscatto.
 
A Pistoia giocò la sua ultima partita ufficiale con il Milan (0-0 a promozione già acquisita) prima di salutare i tifosi durante il Mundialito Clubs ’83 dove timbrò il tabellino marcatori nella partita contro la Juventus vicecampione d’Europa. Nella parte conclusiva della sua carriera, a Parma, Stefano Cuoghi ha conquistato il suo titolo più prestigioso da calciatore: la Coppa delle Coppe, con tanto di gol nella finale di Wembley contro l’Anversa.
 
Al Milan se lo ricordano come “centrocampista tuttofare, solido e battagliero”, utile tanto in interdizione che in fase di ripartenza, in possesso di una discreta visione di gioco e buoni fondamentali tecnici. Il suo supporto nella linea mediana fu molto utile nei due campionati di B del diavolo. In ossequio al suo soprannome, Cuoghi sapeva garantire quantità, non disdegnando anche la qualità. E a volte, come nei “Quadri di un'esposizione” di Mussorgski-Ravel, il Bombardino riusciva anche recitare la parte del protagonista.
  
                                                                                                          by Sertac
 

L’ANGOLO DELLA STORIA

Andrea Bonomi, il primo capitano

Bandiera rossonera negli anni 40, per dieci stagioni vestì la maglia rossonera. Difensore roccioso, collezionò 231 presenze in campionato con tre gol.
 
 
andrea bonomi (foto by magliarossonera.it)
 
Il suo esordio in rossonero avvenne in pieno clima di guerra, nella stagione 42/43. Andrea Bonomi, nato a Cassano d’Adda nel febbraio del ‘23, era approdato al Milan dal Dopolavoro Pirelli che per la sua cessione incassò 500 lire. E’ passato alla storia rossonera come “la bandiera milanista degli anni 40”.
 
La sua decennale militanza al Milan venne impreziosita, nel 1951, dallo scudetto (dopo un digiuno di vittorie durato 44 anni) e dalla Coppa Latina. In quell'anno, Bonomi collezionò anche la sua unica presenza in Nazionale, scendendo in campo contro la Svizzera (1-1). Le statistiche riferiscono anche delle sue tre reti in rossonero, tutte nel campionato 45/46.
 
Ciapin, così era soprannominato Bonomi, al Milan si ambientò presto. Dopo il campionato di guerra del ’44, per sette stagioni fu uno dei titolari inamovibili. Le ultime tre annate rossonere le disputò con la fascia di capitano al braccio, istituita per regolamento nel 1948.
 
In totale, ha disputato con il Milan 231 partite di campionato, esordendo in trasferta il 22 novembre ’42, allo stadio “Mussolini” di Torino. E fu vittoria di misura, con rete di Morselli, nonostante una squadra rabberciata da tante assenze, soprattutto quella del bomber Boffi. Il portiere rossonero Rossetti neutralizzò anche un rigore malamente calciato da Menti.

torino-milan ( novembre '42)
 
Nella cronaca de “Il Littoriale”, Bonomi fu inserito tra i migliori in campo. Con la maglia granata, c’era Valentino Mazzola, lo stesso che parecchi anni prima aveva salvato la vita ad Andrea Bonomi che stava rischiando di annegare nell’Adda (sei anni il rossonero, dieci il granata).
 
L’ultima presenza in campionato, il capitano milanista la collezionò il 25 maggio ’52 e fu una sconfitta, maturata sul campo del Legnano, fanalino di coda. Decisiva fu l’ala destra Sassi, autore di una doppietta. Le cronache della partita, in quella circostanza, non inclusero il capitano milanista tra i migliori in campo.
 
Lo storico rossonero Luigi La Rocca, ha definito Andrea Bonomi “un fedelissimo, pedina inamovibile nel comparto difensivo allestito da Czeizler assieme a Silvestri e Tognon”. Il terzetto, nel campionato 50/51, disputò tutti i quaranta incontri in calendario (38 più i 2 di Coppa Latina) dimostrando sicurezza e tenuta atletica superlativa.
 
In campo, Bonomi venne impiegato in qualche occasione come terzino ma il suo ruolo prevalente era centrocampista laterale. Non eccelso tecnicamente, Ciapin palesava grinta, dedizione e uno spirito agonistico non comune. Si meritò la definizione di “stantuffo mobilissimo e inesauribile, cuore pulsante della squadra”.

foto tratta dal sito magliarossonera.it
 
Nel ’52, passò al Brescia e tre anni più tardi, dopo una stagione a Piacenza, appese le scarpette al chiodo. E’ morto, nel suo paese natale, il 26 novembre 2003, quasi sessantuno anni dopo il suo esordio in rossonero. Nella grande storia milanista, Andrea Bonomi occupa un posto alla voce “capitani e bandiere”, insieme a colonne del calibro di Liedholm, Rivera, Baresi e Maldini. Superfluo aggiungere altro.

 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

MALINES, QUANTA FATICA …

Nell’edizione 89/90 della Coppa dei Campioni, Van Basten e Simone eliminarono l’ostica formazione belga e portarono il Milan in semifinale.
 
 
Il raddoppio di Marco Simone contro il Malines
 
Non fu una passeggiata, tutt’altro.  L’avversaria dei rossoneri, nel doppio impegno dei quarti di finale della Coppa dei Campioni 89/90, fu tra le squadre più ostiche affrontate nel biennio di dominio europeo e mondiale del Milan di Arrigo Sacchi. Dopo cinque anni, una squadra italiana ritornava all’Heysel, lo stadio belga teatro della tragedia prima della finale ’85 tra Juventus e Liverpool. Il Malines, o Mechelen secondo l’idioma locale, per decisione del borgomastro non giocò in casa il match d’andata a causa dell’esiguità del suo impianto di appena 15.500 posti. Pochi per ospitare i campioni d’Europa in carica.
 
Si andò dunque all’Heysel, ridotto per esigenze di sicurezza ad una capienza di 36.500 spettatori. La curva Z, quella della mattanza del 29 maggio ’85, aveva cambiato nome, ribattezzata “Sektor TA”. Prima della partita, si celebrò una messa in ricordo delle vittime, nella chiesa di Nostra Signora del buon soccorso, con la partecipazione di una delegazione rossonera guidata da Galliani e Sacchi.
 
In Belgio, i rossoneri rischiarono grosso. In difesa pesò l’assenza di Tassotti, uno dei cavalieri dell’Apocalisse, pilastro della retroguardia degli invincibili. Il Malines mise alle corde il Milan, salvato dalle prodezze a ripetizione di Giovanni Galli, decisivo a più riprese e ormai utilizzato come portiere di notte, mentre in campionato Sacchi gli preferiva Andrea Pazzagli. E dove non arrivò Galli, fu il palo a salvare la formazione rossonera su una botta di Versavel destinata a finire in rete.
 
A San Siro, le parti s’invertirono ed il protagonista assoluto diventò l’estremo difensore Preud’homme, una vera saracinesca, capace di parate eccezionali e spettacolari. Ci provarono in tutti i modi i rossoneri, ma il pallone non ne volle sapere di entrare. Ad un minuto dal termine, l’arbitro mostrò il cartellino rosso ad un difensore belga, dopo l’ennesimo fallo su un irrefrenabile Donadoni. Dieci minuti dopo, nella prima frazione supplementare, l’ala rossonera reagì ad una scorrettezza e si beccò il rosso. La situazione si complicò maledettamente.

Donadoni e Van Basten, protagonisti nel match di ritorno contro il Malines 

Più passavano i minuti, più il bunker belga dimostra di saper resistere. Per aprirlo ci voleva un’invenzione, una giocata capace di afferrare l’attimo fuggente e cancellare il rischio della pericolosissima lotteria dei rigori. Così, quando Tassotti si avventò su un pallone che sembrava destinato sul fondo, rimettendolo al centro dell’area, ecco Van Basten, il “cigno di Utrecht”, lanciarsi sulla sfera e depositarla in fondo al sacco. Questa volta il portierone del Malines dovette arrendersi.
 
L’apriscatole, il momento tanto atteso, era stato trovato. Il Malines, adesso, era costretto a sbilanciarsi e sugli spazi più larghi i rossoneri diventavano letali. A chiudere la partita e la qualificazione ci pensò Marco Simone, con un’azione personale a quattro minuti dal fischio finale.
Primo dribbling, palla al piede e testa alta, secondo e terzo dribbling in velocità, la difesa avversaria ormai alla mercè del piccolo attaccante milanista. Preud’homme tentò l’estrema resistenza, eroica ma vana. Gol ! Simone esultò braccia al cielo, tutti i rossoneri tirarono un sospiro di sollievo. Il pass per le semifinali era cosa fatta. Ma quanta fatica per eliminare il Malines. 
 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

 ITALO IL BUONO, MISTER EMERGENZA
Ha vissuto momenti difficili e altri trionfali. Al termine della stagione 81/82 sfiorò la salvezza dopo aver vinto la Mitropa Cup. Poi, accanto a Sacchi e Capello negli anni trionfali dell’era Berlusconi.
 

da Magliarossonera.it

Italo Galbiati, scopritore di talenti, allenatore in seconda, uomo che ha sempre prediletto di stare dietro le quinte. Da giocatore fu un mediano, con un passaggio anche all’Inter. E’ uno che sa di Milan come pochi, avendo vissuto vari momenti della società rossonera. Nei primi anni 80 fu chiamato spesso a portare a termine alcuni campionati, dopo esoneri e abbandoni improvvisi.

 
Fu così nel giugno ’81: Giacomini, a promozione acquisita, si dimise in aperta polemica con Rivera e Vitali. In panchina, nell’ultima giornata di B, contro il Pescara, andò Galbiati che poi guidò il Milan nella prima edizione del Mundialito Clubs, kermesse che sancì il ritorno rossonero nel calcio che conta. Con Gigi Radice, chiamato a riportare in alto i colori rossoneri, Italo occupò nuovamente il ruolo di secondo, un braccio destro affidabile, competente ed umile.
 
La squadra rossonera, che sembrava in grado di competere con le grandi della A, finì nelle secche ammorbanti del fondo della classifica, da dove non riuscì a risalire. Esonerato l’ex tecnico del Toro scudettato nel ’76, Galbiati fu chiamato ad una vera “missione impossibile”, la salvezza, avendo preso il diavolo al penultimo posto, con soli 12 punti dopo sedici giornate, in piena bagarre retrocessione.
 
Il risveglio dei rossoneri arrivò fuori tempo massimo, vanificando persino un finale di stagione con un andamento da squadra in lotta per il titolo. Da allenatore “titolare” ha conquistato soltanto la Mitropa Cup, quel mercoledì 12 maggio ’82 in cui il Milan piegò i cecoslovacchi del Vitkovice con i gol su rigore di Baresi e Jordan e la staffilata da cineteca di Cambiaghi.
 
A Cesena, nel pomeriggio che condannò il Milan alla seconda retrocessione, rimase la sua espressione delusa dopo aver appreso del pareggio del genoano Faccenda, complice il “pasticciaccio” di Castellini.

A Cesena, nei minuti finali del campionato 81/82Tornò vice-allenatore con Ilario Castagner, con il quale condivise la trionfale cavalcata nella B 82/83. Un anno dopo, Farina affidò a Galbiati la panchina dopo l’esonero dell’ex tecnico del Perugia, accusato dal presidente rossonero di essersi accordato con l’Inter.
 
Dal “Piccolo diavolo” al “Diavolo dominatore” passarono pochi anni. Nel 1987/88 era il vice di Arrigo Sacchi. Stagioni che hanno permesso a Galbiati, che rimase vice anche con Fabio Capello, di seguire da un osservatorio  privilegiato l’epopea del Milan trionfatore in Italia, in Europa e nel Mondo.
 
Nel febbraio del 1992, il grande “milanogo” del Corriere della Sera, Alberto Costa, lo definì “un'istituzione rossonera”. Il supervisore del settore giovanile, l’abile scopritore di talenti, successivamente svezzati con grande competenza, l’osservatore capace di restare ad alti livelli per anni e anni.
 
“Un bonario carabiniere in rossonero”, aggiunse Costa, capace di “dare ripetizioni di tecnica calcistica a chi avverte la necessità di un aggiornamento professionale”, per limare i piedi, come amava ripetere Galbiati.
 
Il migliore ritratto di Italo Galbiati è quello che una marca di figurine pubblicò nei primi anni Novanta. Eccolo: “Lui che di cose rossonere ne sa come pochi e che potrebbe raccontarle per giorni sulle prime pagine di tutti i giornali, preferisce continuare il suo lavoro. Sul campo, fra i suoi ragazzi, a fianco dell'allenatore. Grande depositario di tutto, esternatore del nulla. Galbiati sa dare valore al silenzio”.
 
                                                                                                          by Sertac

 

L’ANGOLO DELLA STORIA

 ZAGATTI, UNA CARRIERA IN ROSSONERO

Approdò al Milan nel 1951 e fu quella l’unica maglia indossata. Vinse quattro scudetti. Amava ricordare quel giorno del ’59 in cui neutralizzò un campionissimo come Garrincha.
 

 
 
Zagati e Bolchi prima del derby dell'ottobre 1961 vinto 3-1 dai rossoneri (fonte: Magliarossonera.it)

Alla voce “bandiere” un posto di riguardo lo merita Francesco Zagatti, piemontese di nascita ma “esclusivamente” rossonero durante la sua carriera calcistica. Esordì in prima squadra al termine della stagione 51/52. Undici le stagioni disputate in rossonero, con 252 presenze ufficiali. Descritto come giocatore in apparenza ruvido e scontroso, in realtà era ricco di slanci, leale e di buona compagnia, difensore grintoso e mai arrendevole, implacabile in fase d’interdizione ma capace di rilanciare la manovra e rifornire gli attaccanti.

 

A scoprirlo fu Antonio Verola, magazziniere del Milan, che lo aveva notato allenando, nel tempo libero, la Novella, una squadra amatoriale della periferia milanese. In quel periodo, Francesco svolgeva l’attività di garzone elettricista. La segnalazione di Verola giunse a Trapanelli e Santagostino, I due responsabili del settore giovanile milanista. L’accordo fu presto raggiunto: la giovane promessa (15 anni) approdava alle giovanili rossonere in cambio di venti paia di scarpe da calcio usate.

 
La famiglia Zagatti si era trasferita nel capoluogo lombardo alla fine della guerra, al seguito del padre, impiegato statale. Sotto stretta osservazione di “Pin” Santagostino, il terzino migliorò a vista d’occhio e nel novembre del ’51 fu schierato in un’amichevole contro gli svizzeri del Grasshopper, con i rossoneri, largamente rimaneggiati, sconfitti 3-2.
 
In campionato, l’esordio arrivò alcuni mesi dopo (giugno 1952), a Roma contro la Lazio.  Prestazione giudicata positiva dalle cronache d’annata. Terzino sinistro che si adeguava a giocare anche sull’altra fascia ed in mediana, dovette fronteggiare le migliori ali destre del campionato italiano, tra cui Ghiggia e Hamrin.
 
Tuttavia, la partita a cui Zagatti si disse particolarmente legato era un’amichevole che il Milan disputò il 17 giugno del ’59 contro i brasiliani del Botafogo, nelle cui fila militava il grande Garrincha. Bonizzoni, mister rossonero, per celebrare nel migliore dei modi il settimo scudetto, schierò la migliore formazione. A Zagatti fu assegnata la maglia numero 3 in una difesa che vedeva anche la presenza di Cesare Maldini. Altafini e Danova erano le due punte, con Pivatelli alle spalle, Liedholm centrocampista arretrato e Galli in posizione più avanzata.

La prima rete di Giancarlo Danova contro il Botafogo (by Magliarossonera.it) 

Il Botafogo, oltre a Garrincha, presentava nomi di altissimo spessore tecnico come Didì, Paulinho e Zagallo. Pubblico delle grandi occasioni: 60 mila spettatori assieparono San Siro in una serata estiva.  Davanti ai funamboli brasiliani, il Milan non mostrò alcun timore, mettendo in mostra un gioco pulito e veloce, con una manovra svelta che lasciò di stucco i quotati avversari.
 
In poco più di mezzora, il pubblico aveva già visto tre reti: l’improvviso guizzo di Danova, che concretizzò un’azione di Galli e Altafini, anticipando il difensore brasiliano Santos, una fucilata su calcio piazzato di Didì che determinò il pari degli ospiti e la giocata dello stesso Danova, d’alto livello, che riportò in vantaggio il Milan. L’attaccante si defilò, dopo aver scartato un avversario, prima di lasciare partire un bolide angolato che toccò il palo interno e si depositò in fondo alla rete.  Il pareggio del Botafogo giunse ad un quarto d’ora dalla fine con Paulinho, favorito in area da un rimpallo.
 
La prestazione di Zagatti fu superlativa. Il terzino riuscì a bloccare un mostro sacro del calibro di Garrincha. Puntuale e sempre in anticipo, il difensore milanista sfiorò addirittura il gol nella ripresa, con un tiro che lambì il palo della porta difesa da Ermani. Titolare fisso per quasi un decennio (52/60), Francesco Zagatti ha idealmente inaugurato la tradizione dei grandi terzini sinistri rossoneri.
 
Per un breve periodo, dopo il ritiro di Liedholm, ebbe anche l’onore di indossare la fascia di capitano. Diventato allenatore, nel 1965 condusse la squadra primavera allo scudetto, avendo a disposizione, tra gli altri, Luigi Maldera e Prati. Negli anni 70-80, diede il suo contributo, tutt’altro che limitato, nella crescita calcistica di giocatori del calibro di Baresi, Evani, Filippo Galli, Icardi e Paolo Maldini.
 
Nel gennaio del 1982, esonerato Gigi Radice ed in attesa dell’arrivo del patentino di Italo Galbiati, andò in panchina in due partite della tremenda stagione 81/82, entrambe perse (il derby e il match casalingo contro il Catanzaro). Nel 1998, la società gli consegnò la medaglia ufficiale “50 anni di fedeltà rossonera”. Deceduto nel marzo del 2009, occupa un posto preminente nella storia del Milan.

 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

PIOTTI, IRPINO SUPER A SAN SIRO
Ottobre ‘78, alla prima di campionato, solo un gol di Buriani a 12’ dal termine piegò l’eroica resistenza dell’Avellino, salvato dalle prodezze del suo numero 1.
 

 L'undici rossonero schierato contro l'Avellino

Una strenua resistenza, con prodezze a ripetizione davanti al pubblico di San Siro. Per Ottorino Piotti, portiere dell’Avellino neopromosso in A, l’avvio della stagione 78/79 fu da incorniciare. Il Milan le provò tutte per scardinare la difesa irpina. Liedholm, confermato sulla panchina rossonero dopo il buon campionato precedente, schierò Chiodi unica punta di ruolo, con Antonelli e Novellino a supporto e Rivera in cabina di regia. L’Avellino di Rino Marchesi aveva mantenuto l’intelaiatura della stagione 77/78, l’obiettivo dichiarato, ovvio, era la salvezza.
 
Negli spogliatoi, prima del fischio d’avvio, si registrò un fatto curioso, quasi un giallo: Adriano Lombardi, capitano della squadra biancoverde, giunto allo stadio privo della tessera della Figc e di altri documenti di riconoscimento, fu bloccato dal direttore di gara, Mattei di Macerata. “Io la conosco, ma non posso far nulla, lei non può giocare”.
 
Una decisione che avrebbe consentito all'Avellino di ottenere la ripetizione della partita ai sensi dell’art.16 del regolamento federale che precisava: “Il giocatore può prendere parte a gare anche se sprovvisto di tessera… l'identificazione può avvenire anche attraverso la conoscenza personale dell'arbitro”. E Mattei aveva già più volte arbitrato il capitano dell'Avellino.

I novanta minuti furono a senso unico. Piotti salì subito agli onori della cronaca con interventi plastici e in bello stile, uscite dai pali e chiusure da manuale. Nella ripresa, Liedholm inserì Sartori al posto di un evanescente Antonelli. Stessa musica della prima frazione, tema monocorde: assalto milanista al fortino irpino, senza esito.
 
Al 79’, i rossoneri trovarono lo spiraglio per passare in vantaggio. Azione confusionaria nei pressi del limite dell’area avellinese. Un tiro senza pretese divenne imparabile grazie ad una deviazione di Ruben Buriani che mise fuori causa l’estremo difensore avversario. Piotti rimase a terra mentre Novellino abbracciava l’autore del gol. La capitolazione della matricola giungeva quando lo 0-0 sembrava ormai a portata di mano.    
 
In campo, con la maglia numero 11 dell’Avellino, c’era anche l’ex rossonero Ugo Tosetto, inopinatamente soprannominato “Keegan della Brianza”, un’ala sinistra che riuscirà a non segnare mai in A (poco più di 40 presenze) divise quasi equamente tra rossoneri (che lo avevano acquistato dopo un’ottima stagione in B a Monza) ed irpini.
 
Negli spogliatoi, la società campana diramò un breve comunicato: “L'Avellino ha rinunciato a provocare la prima grossa grana del campionato, evitando di presentare reclamo avverso alle decisioni dell'arbitro Mattei che, in occasione della partita con il Milan, ha impedito ai biancoverdi di schierare il giocatore Adriano Lombardi”.

I commenti del dopogara furono quasi tutti su quel portiere di 24 anni che aveva costituito un baluardo quasi insuperabile. Piotti disputò, per il resto, una stagione superlativa, diventando uno dei protagonisti nella salvezza dell’Avellino, tra gli artefici di quella “legge del Partenio”, il campo di casa dove la squadra di Marchesi costruì la salvezza, che gli valsero anche la convocazione nella nazionale italiana olimpica, diventando allora uno dei quattro migliori portieri italiani.  

Piotti neutralizza un rigore in Avellino-Torino (1978/79)
 
Nell’estate del 1980, con il Milan alla ricerca di un numero uno in grado di sostituire Albertosi, Piotti fu ingaggiato dalla società rossonera. Soprannominato “il John Travolta della domenica pomeriggio”, con il Milan disputò un’ottima stagione 80/81 e fu tra i pochi a salvarsi dal naufragio nell’annata nefasta 81/82.
 
L’allenatore Castagner creò il dualismo Piotti-Nuciari e, alla fine del campionato 83/84, l’ex numero uno irpino lasciò il Milan. Intervistato da un sito web avellinese, Piotti, a proposito del suo arrivo in rossonero, dichiarò: “Il Milan fu retrocesso per illecito sportivo e così mi ritrovai a ripartire dalla serie B. Se lo avessi saputo prima, probabilmente non avrei lasciato Avellino.Quella scelta condizionò molto il mio futuro”.
 
                                                                                                          by Sertac
 

L’ANGOLO DELLA STORIA

NEI PRESSI DEL MAUSOLEO DI VITKOVICE
Ottobre 1981, il Milan esordiva in Mitropa Cup affrontando una squadra cecoslovacca. A due passi dallo stadio, si trova una cripta con i resti di oltre trecento soldati italiani.
 

 
 
Vitkovice, sobborgo di Ostrava, ex Cecoslovacchia, un tempo fucina dell’impero austro-ungarico. Fu qui che il 21 ottobre 1981, allo stadio “Mestsky”, esordiva in Mitropa Cup il Milan di Gigi Radice. La stagione è tra le più infauste della storia rossonera, culminata con la seconda caduta nel purgatorio della B, questa volta per demeriti sul campo.
 
Dopo cinque giornate di campionato, il Milan griffato “Pooh Jeans” aveva collezionato 5 punti (1 vittoria, 3 pareggi, 1 sconfitta). Una partenza stentata che venne derubricata come “pedaggio necessario” per un gruppo che doveva ancora assimilare i dettami del nuovo allenatore ma con tutte le caratteristiche per lottare ai vertici della serie A.
 
La partecipazione all’edizione 81/82 della Coppa dell’Europa Centrale – un tempo regina dei trofei continentali ma ormai diventata un mini-torneo riservato alle squadre vincitrici dei campionati di B in Italia, Jugoslavia, Ungheria e Cecoslovacchia – per il Milan era un’eredità della stagione precedente. Fu un modo per riassaporare il clima del calcio europeo sia pur in tono minore.
 
Per la partita d’esordio, Radice propose la formazione migliore: Piotti tra i pali, Tassotti e Maldera terzini, Collovati stopper e Battistini nell’inedita veste di libero, considerata l’assenza dell’infortunato Baresi. In mediana stazionava il giovane Icardi, sulla fascia destra Buriani, Novellino e Romano alle spalle delle punte Antonelli e Incocciati.  
 
Dopo un quarto d’ora, i rossoneri sbloccarono il risultato con Antonelli, lesto a girare di testa alle spalle del portiere Havlicek. Sembrò l’inizio di una passeggiata. Il Vitkovice, che aveva nel numero 10 Gajdusek il giocatore più rappresentativo e già nel giro della nazionale cecoslovacca, reagì con veemenza.
 
Il pareggio di Kusnir, pochi minuti dopo, scaturì da una distrazione difensiva del Milan. Fu proprio Gajdusek, su calcio di rigore allo scadere, a siglare la rete della vittoria dei padroni di casa. Per i rossoneri fu il terzo passo falso in poche settimane.
 
Tuttavia, Vitkovice ha un’importanza nella storia dell’Italia. Proprio a ridosso dello stadio che ospitò il Milan, si trova una cripta dove sono custoditi i resti di oltre trecento soldati italiani della Grande Guerra, prigionieri a Ostrava tra il 1916 e il ‘18. Un episodio di cui si è persa traccia nella memoria storica del nostro Paese.
 
Il mausoleo è nascosto alla vista dei passanti. Alcuni anni fa, tramite l’ambasciata italiana di Praga e grazie all’intraprendenza di Guido Zago, un funzionario pubblico veneto che a Vitkovice ha sepolto il nonno, si è venuti a conoscenza dell’esistenza della cripta. Così, è cominicata la raccolta di informazioni sugli italiani deceduti ad Ostrava nel biennio 1916-’18. Un lavoro di ricerca che ha tolto dall’oblio tanti nostri connazionali.
 
Coadiuvato da Ludmila Charvatova, docente di nazionalità ceca, Zago ha dato visibilità alle vicende dei nostri soldati, sepolti in questa zona dell’ex Cecoslovacchia dopo essere stati duramente impiegati nelle fonderie di Vitkovice, grande complesso siderurgico sorto nel 1828, dove si lavorava durante la prima guerra con turni di dodici ore, una settimana di giorno e una settimana di notte, senza sosta o festività.
 
Circa duemila prigionieri di guerra italiani erano presenti a Vitkovice verso la fine del primo conflitto mondiale. Oltre trecento di essi furono sopraffatti dalle tribolazioni, dalla malnutrizione e dalle malattie, sepolti in un settore riservato del cimitero locale. Dal 1931 i loro resti sono raccolti in una cripta monumentale appositamente eretta.
 
Nella cripta si trovano anche i resti di oltre mille caduti russi, polacchi, cechi e slovacchi, ungheresi, austriaci, romeni e serbi. Una vicenda, quella dei prigionieri italiani ad Ostrava nel periodo della Grande Guerra, sepolta dalla storia e dimenticata. Non l’unica, purtroppo.
 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

IL POMPIERONE FECE IMPAZZIRE PAROLA
Torino, febbraio 1950: Juventus ridotta a brandelli. Un sontuoso Nordhal protagonista di una vittoria indimenticabile.
 

 Stagione 1949/50, la prima dopo la tragedia di Superga che cancellò il “Grande Torino”. Un anno prima, al Milan era arrivato lo svedese Gunnar Nordhal, giocatore dalle caratteristiche giuste per consentire il salto di qualità verso uno scudetto atteso ormai da quattro decenni. Condensato di potenza e velocità, Nordhal costituì con i connazionali Gren e Liedholm lo splendido trio Gre-No-Li, punto di forza del Milan degli anni ’50.
 
Nel campionato 49/50 la forza dell’attacco rossonero fu straripante: 118 gol all’attivo, 35 segnati da Nordhal, capocannoniere di serie A davanti all’interista Nyers. Nonostante questi numeri stratosferici, lo scudetto non arrivò, complice qualche gol incassato di troppo. Il 5 febbraio 1950, a Torino, si fronteggiarono le due squadre in lotta per il titolo. Tre punti dividevano le pretendenti: Juve 36, Milan 33. I bianconeri, reduci da due pareggi ed una sconfitta, sentivano il fiato dei rossoneri sul collo.
 
L’allenatore rossonero, Lajos Czeizler, schierò la seguente formazione: Buffon, Belloni, Foglia, Annovazzi, Tognon, Bonomi, Burini, Gren, Nordahl, Liedholm, Candiani. La Juve, guidata da Carver, rispose con Viola, Bertuccelli, Manente, Mari, Parola, Piccinini, Muccinelli, Martino, Boniperti, J. Hansen, Praest.
 
Arbitro del big-match fu designato l’internazionale Giovanni Galeati che al termine di quella stagione venne inserito nella rosa dei direttori di gara per i Mondiali del 1950 in Brasile. Galeati, ferroviere bolognese, dopo una breve carriera di calciatore, interrotta a causa di un infortunio al ginocchio, cominciò quella di direttore di gara, diventando uno dei fischietti più bravi tra la metà degli anni Trenta e i primi anni Cinquanta e meritandosi l’appellativo di “principe del fischietto”.
 
Quel giorno di febbraio, tuttavia, l’arbitro non ebbe alcuna difficoltà nella direzione di gara. Al primo affondo, lo juventino Hansen sbloccò il risultato sfruttando una fuga solitaria di Preast. La gioia bianconera durò appena 180 secondi. Il pareggio milanista lo siglò Nordhal su azione da calcio d’angolo.
 
Otto minuti dopo, il Milan si portò in vantaggio con il professor Gren. Un gol che mandò in blackout la difesa bianconera. In due minuti, prima Liedholm e poi ancora Nordhal, misero in cassaforte la vittoria. In tribuna, incredibile ma vero, si videro solo drappi rossoneri, con i tifosi di casa ammutoliti e annichiliti. Al 41’, Carletto Parola perse la testa,  rifilando un calcione a Nordhal. Espulsione inevitabile e scuse dello juventino a fine gara.
 
Il secondo tempo si svolse in un silenzio quasi irreale, spezzato soltanto da altre tre reti milaniste. Al 4’ Nordhal realizzò la tripletta, Burini e Candiani completarono la super goleada, fissando il punteggio sul 7-1. Il due volte Ct mondiale, Vittorio Pozzo, commentò così la vittoria del Milan: “Che la seconda in classifica superi la capolista può starci, ma non così”. La notte seguente i tifosi bianconeri non chiusero occhio: il Milan, prima distante 8 lunghezze, si era portato ad un solo punto di distacco.
 
Un muratore, tifoso della Vecchia Signora, dopo una notte insonne, finì addirittura ricoverato all’ospedale, reparto psichiatrico. La parte finale della stagione, però, si colorò di bianconero. La Juventus, smaltita la cocente sconfitta, riuscì a vincere il titolo con un margine di 5 lunghezze di vantaggio sul Milan. Tuttavia, come ebbe a scrivere un giornalista piemontese, quel 7-1 fu “la macchia di ragù su un manto di ermellino”.
 
I bianconeri avevano conosciuto quella straordinaria forza della natura che rispondeva al nome di Gunnar Nordhal, bomber da 210 gol in 257 partite in maglia rossonera. Numeri che, ancora oggi, collocano il Pompierone svedese al primo posto in termini di media realizzativa nei campionati a girone unico di serie A.
 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

L’UNICA VOLTA DI URANO IN CAMPIONATO
Meno di una meteora in maglia rossonera, Navarrini collezionò una sola presenza in A, in un recupero infrasettimanale vinto dalla Lazio a San Siro. Pessimi furono i rapporti con Rocco.
 
 Una sola presenza in campionato, un passaggio che solo gli acuti osservatori di vicende rossonere riescono a notare. Urano Navarrini Benigni (cognome materno utilizzato fino al 1972, anno in cui il padre potè riconoscerlo) nella storia del Milan è stato una promessa evoluta alla stadio di repentina meteora. Arrivato in rossonero nel 1961, espletò la trafila per quattro anni nel settore giovanile dopo essere stato prelevato dalla Libertas Grunland Milanese. 

 
Il padre di Urano era il celebre Nuto Navarrini, re dell’Operetta, i cui resti riposano al cimitero monumentale di Torino. In un numero di Forza Milan dell’annata 64/65, così viene presentato Navarrini Benigni: “Sentiremo spesso parlare di questo giovanotto di 19 anni, che potrebbe essere uno dei futuri pilastri del Milan”. Urano aveva tirato calci ad un pallone sin dall’età di tre anni, era difficile persino trovargli degli scarpini da calcio adatti al suo minuscolo piede. Disputò un buon torneo di Viareggio, ad inizio degli anni 60, e dopo due stagioni di gavetta nel vivaio, Viani e Liedholm lo spedirono alla Pistoiese per fare esperienza in campo con più continuità. Ragazzo serio e studioso, riuscì ad ottenere un diploma di disegnatore industriale. Nel ’65 tornò al Milan.
 
La prima vera occasione per mettersi in evidenza in prima squadra, Navarrini l’ebbe in Coppa delle Fiere, contro i francesi del Racing Strasburgo. Dopo lo striminzito successo dell’andata (gol di Fortunato), Navarrini sbloccò le marcature nel match di ritorno. Un gol che non bastò per passare il turno ma fu necessario per evitare l’eliminazione, dato che la rimonta transalpina si fermò al 2-1, rinviando tutto alla partita di spareggio che vide poi prevalere i rossoneri.
 
Liedholm, allenatore di quel Milan, lo impiegò all’ala destra e Urano non sfigurò. In quell’edizione delle Fiere, trofeo antesignano della Coppa Uefa, Navarrini collezionò altre tre presenze, l’ultima della serie nella sfida d’andata contro il Chelsea, a San Siro, il 9 febbraio ’66, risolta dai gol di Amarildo e Rivera. L’ostacolo inglese si rivelò fatale a causa del sorteggio dopo il pareggio (1-1) nel terzo incontro (allora, il regolamento non prevedeva i calci di rigore).
 
Il 9 marzo di quell’anno, nel recupero di campionato contro la Lazio, Navarrini tornò in campo ancora con la maglia numero 7 per l’esordio in A. I gol di Governato e D’Amato sancirono il successo laziale e la fine di qualsiasi aspirazione scudetto del Milan che al termine della stagione 65/66 finì distante dall’Inter campione d’Italia. Per Navarrini fu la prima ed ultima presenza in massima serie.
 
Nell’estate del ’66, infatti, passò al Savona, prima tappa di una serie di trasferimenti fino all’epilogo di carriera con la maglia della Pro Patria. Il suo momento migliore lo trascorse con la maglia del Novara dove collezionò oltre cento presenze. Pessimo fu il suo rapporto con il Paron Rocco.
 
Al Guerin Sportivo, alcuni anni fa, Navarrini, classe 1945, raccontò un episodio. “Rocco bloccò il mio trasferimento ad una squadra di B, chiedendo di mandarmi in C, a Trieste. Alla mia richiesta di spiegazioni, il Paron spiegò che comandava lui e si doveva fare così”. Si racconta che, prima di un allenamento, Nereo Rocco lo avrebbe apostrofato pesantemente dopo aver notato la Spider di Urano parcheggiata nello spazio riservato al Paron. Del suo difficile rapporto con Rocco, Urano riferì inoltre: “L’allenatore mi disse: o fai così o smetti di giocare al calcio. Comunque vieni pure a Milanello e ti faccio la grazia di restare a mangiare a mezzogiorno invece di fare avanti e indietro con Milano”.
 
Pur di rimanere al Milan, Navarrini avrebbe accettato di fare la riserva ed entrare una volta ogni tanto negli ultimi minuti. Agli allenamenti giungeva in giacca e cravatta, seguendo i consigli del padre. “Sei al Milan, una grande società, devi essere elegante”, gli ripeteva il re dell’operetta che ebbe una piccola parte nel film Tototruffa con il Principe de Curtis e Nino Taranto (era l'allocco americano nella famosa scena della vendita della Fontana di Trevi).


 

Colombo Labate, fondatore e titolare del meraviglioso ed inimitabile portale Magliarossonera.it, ricorda una telefonata con Navarrini. “Pur non avendo avuto feeling con Rocco, Urano rimase ed è rimasto legato al Milan. In ogni caso, – aggiunge Colombo Labate – ho avuto modo di apprezzarne soprattutto la correttezza oltre che la sua bontà di fondo”.
 
Da allenatore, l’ex centrocampista ha guidato alcune squadre di serie C ed Interregionale. Navarrini  è passato alla storia rossonera come la promessa mai sbocciata, la crisalide rimasta tale. L’ambizione di diventare un punto fermo del Milan fu presto archiviata, come una storia d’amore adolescenziale sbocciata a luglio e finita prima del rientro tra i banchi di scuola. 
 
                                                                                                          by Sertac

L’ANGOLO DELLA STORIA

LA PIU’ BELLA PARATA DI RICKY
Una prodezza strepitosa, tre interventi consecutivi in pochi secondi, un muro davanti al “vicentino” Paolo Rossi. Era la stagione 78/79, con il quarantenne Albertosi protagonista tra i pali del Milan “Stellato”.

Settantadue primavere sulle spalle, oltre 500 presenze ufficiali, fa parte a pieno titolo della “Hall of Fame Rossonera”, con la sua maglietta gialla ed i baffetti da “trilogia del dollaro” di Sergio Leone. Di Enrico Albertosi possiamo ricordare tanti episodi della sua sconfinata carriera, un “cursus honorum” da grande numero 1.
 
In una bellissima intervista di Massimiliano Castellani, ottima firma del quotidiano Avvenire, il portiere del Milan che conquistò la Stella nel 1979 elegge la sua parata più bella. La partita è Lanerossi Vicenza-Milan del novembre ’78. Bigon aveva riportato il Milan in vantaggio al ventesimo della ripresa.
 
Poco prima della mezzora, arrivò la “parata stratosferica” di Albertosi: tre interventi in cinque secondi. La prima prodezza di piede, su tiro ravvicinato di Paolo Rossi, poi con il corpo sul tap-in del futuro Pablito ed infine deviazione in angolo con volo felino su tentativo di Guidetti. “A volte mi agito nel letto ripensando a quella parata”, confessò Albertosi nell’intervista.
 
Boldini mise al sicuro la vittoria che consentì al Milan di agganciare in vetta il Perugia dopo otto turni di campionato. E fu provvidenziale, il numero uno milanista, nella seconda parte di quell’annata. Calò la saracinesca in un sofferto pareggio interno contro la Juventus, nel momento più delicato della stagione.
 
Non è stato esente da “papere” clamorose. I tifosi milanisti ricordano quella dell’ottobre ’79, su tiro del lusitano Duda, in Coppa dei Campioni. Un erroraccio che lasciò tutto lo stadio annichilito ed eliminò i rossoneri. Ricky rammenta, invece, un suo liscio clamoroso su punizione di Mascheroni in un altro Milan-Vicenza.
 
Avrebbe preso parte, probabilmente, alla spedizione azzurra in Argentina ma arrivò un veto. “Zoff pretese e ottenne da Bearzot – racconta Albertosi – che non venissi convocato come secondo perché la mia presenza lo rendeva insicuro. Allora quando prese quei due gol con l’Olanda l’ho massacrato di critiche. Dino mi tolse il saluto. Però anni dopo ci trovammo per caso nello stesso hotel e ci siamo abbracciati come due fratelli”.
 
Ai tempi del Cagliari, Scopigno entrò in una camera da letto, durante un ritiro, trovando un giro di poker in corso, con Albertosi tra i protagonisti. La stanza era avvolta nella nebbia per le tante sigarette accese. L’allenatore cagliaritano si sedette e domandò: “Disturbo se fumo?”. Storie di un calcio che fu dove il portiere titolare aveva sempre e soltanto la maglia numero 1 e la sua riserva il 12.
 
Qualche bicchiere da calciatore, Albertosi viaggiava alla media di oltre un pacchetto di sigarette al giorno ma quando ha smesso di giocare ha chiuso con il fumo. Si ritrovava spesso con Beppe Viola a San Siro, qualcuno si mise a dire che scommetteva milioni all’ippodromo. “Erano puntate normali”, ribatte Albertosi. E le donne nelle notti brave? “Rispetto ai giocatori di oggi, che sono sempre fuori fino all’alba, al confronto sono stato un francescano. O quanto meno un tradizionalista”.
 
Come evidenziato nell’intervista di Castellani, Albertosi è stato il bello e il buono ma mai il brutto, malgrado quella macchia datata 1980. Un portiere, come il capitano di una canzone, non tiene mai paura e Ricky, in campo, non conosceva quella parola, prendendo le stesse botte di un pugile, rimettendoci cinque denti, rompendosi un paio di dita e due volte il setto nasale.
 
Rischi collaterali per un vero numero uno – e Albertosi lo è stato, eccome – che spesso non può fermarsi a pensare prima di un intervento. Del resto, nel rettangolo di gioco (e spesso anche nella vita), pensare è per gli stupidi… i cervelluti si affidano all'ispirazione.

 
                                                                                                          by Sertac